Repressione per Piazza Italia
10 - 11 - 2009
L'articolo che segue, di Domenico Mungo, è stato tratto da Ultrasblog, aggiornamento dell'8 novembre 2009.
Piazza Italia
per una breve riflessione sulla natura della repressione in Italia
dal dopoguerra ad oggi
La recrudescenza della repressione ha portato ad una frustrazione collettiva. L'impossibilità del contatto fra gruppi e l'esasperazione del controllo poliziesco, il fatto che a loro volta le forze dell'ordine si rapportino alle tifoserie come una terza forza in campo ha creato una sorta di sacra alleanza fra le tifoserie che individuano nelle forze dell'ordine il primo nemico da affrontare e superare. Inoltre c'è un fattore controculturale che si è consolidato negli anni, paradossalmente nel periodo posteriore alla seconda guerra mondiale, quando la repubblica democratica avrebbe dovuto avere anche una polizia democratica ed invece migliaia di casi hanno posto le forze dell'ordine come avversari delle masse, nelle piazze, nelle università, nelle fabbriche, fino dentro gli stadi, creando una coscienza collettiva che individua nella divisa qualcosa contro il quale combattere.
Infine un dato che deve sinceraci sulla natura autoritaria della polizia italiana ne viene delineata da uno dato storico inconfutabile. All'indomani dell'8 settembre 1943 in un'Italia attraversata dai moti antimussoliniani e dall'embargo del tutti a casa badogliano, l'unica istituzione che non muove di una virgola il suo organigramma è quella dei questori (ben 104 su 110 rimangono al loro posto !) e dello stato maggiore dei carabinieri e dell'esercito. La consequenziale perpetuazione di una forte componente autoritaria delle forze dell'ordine italiane si manifesta pertanto in una continuità anagrafica e ideologica con il regime fascista. Questo condurrà inevitabilmente alla creazione del reparto mobile Celere di scelbiana memoria e ad una sistematica contrapposizione di campo fra le forze di polizia e le masse. Dal confronto con alcuni testi "sacri" della storiografia italiana contemporanea, in particolare Storia dell'Italia partigiana di Giorgio Bocca e Storia d'Italia dal dopoguerra ad oggi di Paul Ginsberg e le fonti ad essi correlate, tutti quegli episodi che hanno visto morire nelle piazze e nelle strade italiane, uomini e donne che stavano semplicemente manifestando e rivendicando i propri diritti nei diversi momenti che hanno segnato la trasformazione dell'Italia da regime totalitario e monarchico a repubblica democratica e parlamentare contestualizzandoli all'interno di una epoca storica nuova che definiremo"della transizione dal regime fascista alla democrazia compiuta". Ovvero, ci si chiede, se esiste una sostanziale differenza fra i due anonimi dimostranti assassinati dalla polizia vicino all'arsenale a La Spezia il 26 luglio del 1943 all'indomani della caduta del Duce, e quindi in un momento storico segnato dai prodromi di una guerra, prima di occupazione e poi anche drammaticamente fratricida, in cui la morte era elemento politico e sociale quotidiano, e quella di Carlo Giuliani avvenuta a Genova in Piazza Alimonda il 20 luglio del 2001 durante gli scontri con la polizia verificatisi in seguito alle dimostrazioni contro il vertice del G8 e quindi in pieno regime democratico e di libertà di espressione per finire con l'assassinio di Gabriele Sandri, Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi, per tacere di migliaia di casi silenti e che non hanno avuto risonanza mediatica adeguata. La risposta che ci sentiamo di dare, alla luce di questa rapida e irruente disamina storico-politica è: no, non esiste alcuna differenza nell'essenza. Si potrebbe, e volentieri prestiamo ascolto alle sacrosante obiezioni storiografiche, delinearne una metastorica, o addirittura ucronica- in virtù di una lettura fantapolitica della storia dalla parte dei vinti-ovvero che tende ad atomizzare la vicenda umana intrecciata a quella degli eventi, attraverso un comune denominatore reticolato di epoche incoerenti fra di esse, dove causa ed effetto appaiono come artificiosamente relegate in capitoli di un volume pericoloso da fascicolare in un tutt'uno. Ciò che qui si vuole tessere è più che altro un ideale, piuttosto che ideologico, filo rosso che lega fra di loro tutti i momenti che hanno contrapposto sulle piazze e nelle strade, ovvero nel luogo deputato alla rivendicazione dialettica ed ideologica- oltre che "azionista"- delle diversità, e quindi agone della democrazia per antonomasia (l'agorà ateniese ne fu la più fulgida dimostrazione etimologica), individui, movimenti, classi sociali, culture e sottoculture antagoniste e il più fedele guardiano degli interessi dell'ordine costituito: le forze di polizia e i carabinieri in quell'immaginario luogo collettivo qui denominato metaforicamente Piazza Italia. Ad esempio quasi mai i responsabili degli eccidi e degli assassini sono stati condannati, quasi sempre sono stati assolti perché il "fatto non costituisce reato", ciò ci conduce alla conclusione che in Italia sparare, manganellare, pestare, torturare cittadini e dimostranti non costituisce di fatto reato. Vuol dire che in Piazza Italia nel momento in cui l'individuo si accinge a contestare più o meno violentemente l'ordine costituito il suo status si trasforma da quello di cives (ovvero del cittadino dotato dei diritti civili) a quello di homo sacer [1].
La repressione di Piazza in Italia è stata il paradigma della prima risposta che lo Stato ha sempre saputo dare a queste rivendicazioni.
1. Homo sacer: l'uomo escluso dalla vita politica e sociale che nella ius latina non godeva di alcun diritto civile e la cui uccisione non costituiva, di fatto, omicidio". Giorgio Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, 1995, Einaudi.